Bianchi: “Sivori, Maradona e il mio Napoli: ho avuto tutto! In Nazionale c’era la geopolitica…”
Ottavio Bianchi, allenatore del Napoli scudettato di Maradona, ha rilasciato una lunga intervista a Walter Veltroni, sulle pagine del Corriere dello Sport, ecco alcuni stralci.
Come ha cominciato a giocare al calcio? O ad appassionarsi di calcio?
«Mi ricordo di aver cominciato a giocare al calcio prima di camminare o di parlare, mi ricordo che avevo sempre il pallone in mano. Il mio regalo favorito era solo una palla, o qualcosa che avesse a che fare con il football. Quando poi sono diventato grandino, sui sei sette o otto anni, mi chiedevano: ma tu cosa farai da grande? Io farò il calciatore, non capisco perché mi facciano queste domande».
Dove giocava ?
«Ho iniziato al Cristo Re, a Brescia, all’oratorio come tutta la mia generazione. In questo piccolo campetto si giocava come dannati e ogni tanto rompevamo un vetro a Don Nicola, allora lui minacciava di non darci più la palla. Ecco lui era proprio il classico Don Camillo, energia e simpatia all’ ennesima potenza».
Si ricorda i suoi amici di allora?
«Io sono del ’43. Mi ricordo tutti quelli del mio cortile, mi ricordo tutti i ragazzi con cui siamo cresciuti, ogni tanto ci troviamo ancora. Nel nostro condominio abitavano famiglie di operai, mio padre era uno di loro, un tipografo. Mia madre faceva la sarta. Io sono molto orgoglioso di aver avuto i genitori che ho avuto, non li avrei mai cambiati con nessuno. Sono stati un esempio, è una gioia ricordarli ancora adesso. Eravamo tutti figli di operai e, oggi, se posso fare un elenco, siamo diventati due medici, un industriale, un architetto, due professori universitari e un calciatore».
Si ricorda qualche loro reazione quando lei ha cominciato ad avere i primi successi o la prima volta che ha messo la maglia della Nazionale?
«No, io sono sempre stato un po’ particolare, non volevo partecipassero alla mia vita sportiva. Quando avevo diciassette anni ho subito un gravissimo infortunio, sono stato fermo per due anni e mi dicevano che non avrei più potuto camminare. Allora la chirurgia non era quella di oggi, ho girato gli ospedali a destra e a manca ma non se ne veniva a capo. Con grande volontà sono riuscito a giocare di nuovo e a farmi male di nuovo. I miei soffrivano in silenzio ma non sono mai venuti allo stadio, io non volevo».
Giocava già centrocampista?
«Noi abbiamo avuto una grande scuola di vita e di calcio. Allora c’ era la scuola austroungarica che imponeva legge, la grande Ungheria, c’era Puskas e c’ era un grande centroavanti che giocava arretrato che era Hidegkuti. Al Brescia il nostro presidente era Beretta, teneva talmente al settore giovanile che ancora oggi sarebbe all’avanguardia nell’impostazione dei vivai. Ingaggiò un allenatore austriaco, Neschy, che era stato un grande giocatore ed aveva la passione dell’insegnamento. Beretta lo pagava il doppio dell’ allenatore della prima squadra. Facevamo allenamento individuale ma in maniera incredibile: destra, sinistra e si segnava la zona con l’ elastico. Ho vissuto di rendita di questi insegnamenti per tutta la mia carriera calcistica. Sono sempre stato un centrocampista che aveva nel Dna la tecnica individuale».
Com’era il calcio di allora?
«Allora era proprio naif. Non c’era la televisione, se tu la domenica dovevi giocare contro una grande squadra e campioni tipo Haller o Sivori, alla fine dell’allenamento c’erano i tuoi compagni più vecchi che ti raccontavano quei fuoriclasse che finta facevano, come si muovevano. Si rubava il mestiere, come si usa dire. Non c’ erano quei guadagni, non avevamo assistenti o procuratori o addetti stampa, non c’era l’ associazione calciatori ed eri un pacco postale, firmavi a vita».
Lei ha giocato con tre campioni assoluti: Sivori, Rivera e Riva. Mi parla di loro? Sivori com’ era?
«Sivori era il talento assoluto, dotato di una personalità eccezionale e di una grossissima dose di cattiveria sportiva. Sapeva di essere bravo, aveva una grande auto considerazione di sé. Allora c’era Pelé e lui non voleva essere secondo a nessuno. Aveva gli occhi dietro la testa, faceva le cose più difficili con una facilità di gioco pazzesca. Un talento naturale, con una personalità schiacciante. Lui voleva essere il numero uno sia in campo sia fuori e anche nei rapporti con i dirigenti lui voleva essere il protagonista».
Si ricorda qualche episodio con lui?
«Lui non era uno che faceva molto allenamento, se non c’ era la palla, e anche io ero uno che era nato con il pallone tra i piedi e mi stufavo a correre troppo e a fare gli esercizi. Poi correvo così tanto durante la domenica… Quindi sia lui che io non eravamo degli Stakanov degli allenamenti».
Rivera com’ era?
«Rivera è il classico giocatore perbene in tutti i sensi, era elegante, era il più grande uomo assist che abbia mai visto. Però non poteva essere uomo squadra, nel senso in cui lo erano Di Stefano o Cruyff. Rivera secondo me è stato l’esempio classico del grande giocatore finesseur. Gigi Riva era un introverso. Un grandissimo, coraggiosissimo giocatore che anche adesso farebbe la differenza. Gigi Riva è rimasto sempre a Cagliari, ha avuto grande rispetto per questa terra. Poteva andare nelle più grosse squadre di questo mondo e non ha mai accettato.
Perché lei ha fatto solo due partite in Nazionale? Le ricordo tutte e due, quella con l’Urss e quella con la Romania a Napoli.
«Ci sono stati dei problemi. Allora c’ erano i blocchi, c’era il blocco dell’ Inter. Era un ambiente molto diviso, diviso tra nord e sud, e le dico schiettamente che non mi è piaciuto. L’ho detto chiaro e tondo ai dirigenti, ho detto guardate se io devo venire perché pensate che sia utile per calcoli geopolitici io rimango volentieri a casa, non è questa la mia idea della nazionale».
Fermiamoci un attimo sul Napoli, mi racconta un po’ quell’esperienza del Napoli?
«Al Napoli io non volevo andare perché conoscevo l’ambiente e sapevo anche, per esperienza vissuta, che noi, anche quando avevamo una grande squadra, non vincevamo mai. Lei conosce Roma e sa che anche a Roma c’è questa tendenza. L’anno prima il Napoli con Maradona per tre quarti di campionato aveva giocato per non retrocedere. L’ anno dopo dunque era difficile giocare per vincere subito. Per vincere bisogna avere delle basi di lavoro e non crearsi alibi, se tu hai degli alibi a Napoli hai finito. Vai per la tua strada anche se la strada è in salita. A Ferlaino dissi che se voleva che lavorassi con lui, doveva sapere che io intendevo fissare delle regole e farle rispettare, con severità. Così è stato il primo anno: mi avevano chiesto di andare in Coppa e siamo arrivati subito terzi. L’anno dopo c’è stato il salto di qualità, abbiamo vinto lo scudetto e poi sono cominciate un po’ di beghe, come al solito. Non si è abituati a vincere, a Napoli, però sicuramente le mie stagioni sono state positive».
E andò alla Roma.
«Viola mi volle. Io feci un periodo sabatico perché il Napoli mi tenne fermo per un anno e Viola mi aspettò. In quel periodo ho cominciato ad avere dei contatti e siamo entrati subito in sintonia. L’ ingegner Viola è stato un grandissimo dirigente, un dirigente di grandissimo valore».
Perché ad un certo punto ha smesso di allenare?
«Ho smesso di allenare come ho smesso di giocare. Dalla sera al mattino. Al di là dei gravissimi infortuni che ho avuto e dei mesi e anni di ospedale, per me giocare al calcio è stata una gioia. Il lavoro duro era quello di mio padre, col piombo della tipografia. Per me andare al campo, prepararsi per giocare la domenica era una gioia. Lo stesso è stato anche fare l’ allenatore. Molti mi hanno chiesto quanto stress avessi accumulato gestendo così tanti giocatori importanti. I miei familiari, di fronte a questa domanda, ridevano, sorridevano sottovoce e dicevano che lo stress lo subiva davvero chi lavorava con me. Non ho mai avuto pressioni particolari, non ho mai avuto stress particolari. Ero uno degli allenatori importanti, quando ho smesso, ma improvvisamente, sentivo che mi costava sacrificio prendere la macchina, andare in campo, andare nello spogliatoio. E poi forse non era più il mio tempo: per esempio io con la società volevo solo un punto di riferimento, non volevo rapporti con i tifosi e non volevo procuratori in giro».
Mi dice quali sono i due o tre giocatori giovani più forti che ci sono in Italia in questo momento?
«Sono anni che continuo a battere, come ho fatto ancora quando ero in federazione, sulla faccenda dei giovani. Il nostro è un campionato che risente della crisi dei vivai, dei pochi giocatori italiani in campo, della situazione degli stadi. Da noi fuoriclasse come era Diego, come era Aldair come erano Platini, Falcao, Zico o Van Basten ormai non vengono più. Con i giovani bisogna avere passione, sarebbero la salvezza di tutte le società, perché prima ti fai lo zoccolo duro di italiani e poi vai ad acquistare. Ma due o tre stranieri importanti, è inutile che ne compri undici mediocri. Adesso mi fa piacere che ci sia una piccola speranza, un’ inversione di tendenza, vedi l’ Atalanta o il Sassuolo. Io una squadra italiana composta da undici giocatori stranieri non la guardo nemmeno. Potrà anche vincere ma non mi interessa. Mi interessa vedere una squadra che ha dentro dei giocatori interessanti, magari giovani come Belotti, Berardi, Locatelli, Calabria, Donnarumma, Bonaventura e chi più ne ha più ne metta…».